Livello difficoltà ★★★✩✩
Medico prescrive farmaci al telefono, senza visitare i pazienti.
È responsabile penalmente?
Tizio, medico del Servizio Sanitario Nazionale, abitualmente prescriveva per telefono i farmaci ai suoi pazienti senza, tuttavia, sottoporli ad alcuna visita.
Invero, si limitava ad ascoltare i sintomi riferiti e le richieste degli stessi, sebbene questi non si fossero mai recati presso il suo studio medico.
Orbene, dopo approfondite indagini, le autorità competenti venivano a conoscenza della condotta perpetrata da Tizio.
Dunque, questi, preoccupato delle conseguenze penali della propria condotta si reca da un legale al fine di ricevere maggiori delucidazioni sulla questione.
Il candidato, assunte le vesti dell’avvocato di Tizio, rediga parere motivato.
SOLUZIONE SOMMARIA
Si deve, in primo luogo, evidenziare che il Codice Deontologico prevede che il medico, nel redigere le certificazioni, debba attestare solo dati clinici che abbia direttamente constatato, al fine di evitare il rilascio di certificati di comodo.
Quindi, non può essere considerata attività ricognitiva – nonostante la prassi diffusa in tal senso – quella del medico che prescriva un farmaco semplicemente colloquiando al telefono con un assistito mai incontrato, il quale gli descrive determinati sintomi.
Pertanto, deve affermarsi che la prescrizione di un medicinale presuppone, in linea generale, che il medico abbia visitato il paziente ed abbia riscontrato l’esistenza di una patologia o di un disturbo per la cui cura è necessario il farmaco prescritto nella ricetta.
Ovviamente questo principio vale in senso ampio, atteso che se il medico conosce il paziente ed è a conoscenza del tipo di patologia da cui è affetto può anche rilasciare la ricetta senza dover necessariamente visitare ogni volta il paziente.
L’importante, però, è che il medico non rilasci mai ricette “al buio”, senza essere sicuro della patologia esistente o basandosi soltanto su quanto gli viene riferito, senza aver provveduto a riscontrare oggettivamente la sussistenza della patologia.
Difatti, la prescrizione farmacologica non può basarsi su di una mera notizia fornita da parte di chi la richiede.
Invero, un documento proveniente da un medico deve attestare i fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.
Alla luce di quanto detto, si configura il reato di falsità ideologica in certificazione amministrativa ex art. 481 c.p. quando il giudizio diagnostico espresso dal medico certificante si fonda su fatti, esplicitamente dichiarati o implicitamente contenuti nel giudizio medesimo, che non siano rispondenti al vero, e ciò sia conosciuto da colui che ne fa attestazione.
Tuttavia, sarebbe eccessivo dilatare la portata della norma dando per implicito che ogni prescrizione farmacologica corrisponda necessariamente ad una visita del sanitario.
Infatti, ciò che rileva è la funzione certificativa del sanitario, nel senso indicato, non anche come il sanitario stesso sia pervenuto a porre in essere la certificazione medesima (se attraverso una visita del paziente, un colloquio visivo con lo stesso o altro, soprattutto in considerazione della variegata tipologia di relazione professionale che può sussistere tra un medico ed i suoi pazienti, nonché in considerazione della diversissima tipologia di farmaci prescrivibili).
Ciò nondimeno, il documento conserva intatta la propria valenza certificativa – su cui, quindi, può innestarsi il falso ideologico – nella misura in cui attesti, attraverso la prescrizione, che l’assistito abbia diritto a quella specifica prestazione o a quel determinato farmaco.
Alla luce delle superiori argomentazioni, si deve concludere che Tizio con la propria condotta abbia integrato il reato di falsità ideologica in certificazione amministrativa ex art. 481 c.p. in quanto ha prescritto diversi farmaci senza accertare la sussistenza della specifica condizione patologica che ne giustificava la somministrazione.
Invero, le ricette hanno natura attestativa del diritto dell’interessato alla prestazione farmacologica a cagione del suo stato di malattia.
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